A Pedrazzi tocca anche il turno di notte, il dottor Moresco ha dato malattia e nessuno poteva sostituirlo. Lui è quello che ha appena divorziato, lui è quello che non ha una vita famigliare e quindi non ha impegni urgenti e gli tocca spesso sostituire i colleghi malati.
Non gli importa poi molto, non gli pesa fare un altro turno, quello notturno, a parte le emergenze, è il più tranquillo, i pazienti dormono e quelli in coma non si lamentano comunque.
Sfoglia un noioso trattato su un nuovo farmaco che sembra fare miracoli per il fegato e rischia di addormentarsi al secondo paragrafo.
Allora si alza, veleggia stancamente verso i distributori automatici trascinando a fatica i piedi sul linoleum color fungo dei corridoi.
Beve un caffè senza nemmeno gustarlo, lo butta giù come acqua fresca, ustionandosi la lingua e parte del tratto esofageo. Poi, non contento, ne prende un altro e lo assorbe allo stesso modo. Sia il liquido che l’ustione hanno l’effetto desiderato: svegliarlo completamente.
Fissa per alcuni secondi il messaggio di benvenuto del distributore automatico, giusto per assicurarsi di essere vivo e sul piano esistenziale giusto, poi, dopo un brontolio di protesta dello stomaco, si appresta a ritornare alla postazione di controllo.
Mosso il primo passo però, nota un movimento alle sue spalle con la coda dell’occhio. Con un sussulto al cuore, si volta, ma non scorge nulla, se non la parete divisoria del corridoio che porta in radiologia.
Sta dandosi dell’idiota per essersi fatto ingannare da un gioco d’ombre, quando sente un rumore provenire da quella direzione.
Altro sussulto al cuore e una breve morsa alla bocca dello stomaco.
Il rumore non si ripete, ma ora il dottor Pedrazzi è più che sveglio, perché nel sangue si è aggiunta anche un po’ di adrenalina. Gli vengono in mente immagini da film dell’orrore, dove il protagonista entra comunque nella casa stregata perché è stato attratto da qualcosa o spinto dalla curiosità.
Ma qui non siamo in un film dell’orrore, giusto? – pensa il dottore per rincuorarsi.
Fissa per diversi secondi il punto in cui crede di aver visto qualcuno muoversi, ma non accade nulla, naturalmente. D’altronde nemmeno nei film più scarsi non funziona così. Allora, suo malgrado, spinto dalla curiosità assassina di quei b-movie, anche il dottor Pedrazzi si muove nella direzione da cui sembra essere scaturito il rumore di poco prima.
Nel corridoio non c’è nessuno. Muove verso sinistra, verso le camere dove sono ricoverati diversi pazienti terminali e in coma irreversibile.
Il silenzio è assoluto, disturbato soltanto dal ronzio delle apparecchiature elettroniche di controllo. Passando davanti alle stanze con larghi finestroni a veduta televisiva sui pazienti distesi nei letti, non nota nulla di strano e l’unico essere deambulante sembra essere lui.
Volta l’angolo del corridoio cercando di non trascinare troppo le suole degli zoccoli sul pavimento di linoleum verde. Alla sua sinistra nota qualcosa, un movimento furtivo.
Il cuore rimbalza a centodue battiti al minuto, la stanza è quella del paziente appena uscito dalla sala operatoria, il morente misterioso.
Nella penombra scorge una figura: è china sul paziente. Pedrazzi si immobilizza, pietrificato dalla paura. La figura si muove, diventa più visibile. È una donna, ha lunghi capelli color grano, è di spalle ed estrae dalla giacca una siringa.
Il dottore vorrebbe intervenire, ma, per un motivo che non riesce a comprendere, è paralizzato dal terrore.
La donna infila la siringa in un punto indistinto del corpo del paziente, questo fa scattare qualcosa nella mente del medico. La paralisi si scioglie come gelato al lampone. Scatta verso la stanza, ma fa troppo rumore. La donna percepisce la sua presenza, si volta e lo vede.
Non si muove, continua strenuamente a iniettare il liquido nel corpo disteso nel letto. Pedrazzi è ormai alla porta. La spalanca e si proietta di slancio contro la bionda.
Lei conclude il suo lavoro, ha il tempo di applicare una benda e poi si scosta nell’esatta frazione di secondo in cui il medico le sta rovinando addosso.
Pedrazzi crolla sul pavimento senza nemmeno sfiorare un pelo della donna. Nella caduta però nota un particolare irrilevante, che indossa un maglione ridicolo, con alci che ricoprono il seno.
La donna gli salta letteralmente sopra e fugge verso la porta.
“Ferma!” le urla dietro il dottore tentando di rialzarsi., ma lei ovviamente non si ferma. Scompare nella penombra del corridoio e i suoi passi ritmati si fanno sempre più lontani.
Il dottore riesce finalmente a rialzarsi, guarda per un secondo il paziente e i suoi valori sul display sopra il letto, ma niente sembra essere cambiato. Qualsiasi cosa abbia iniettato la donna, per il momento non ha alterato l’equilibrio comatoso del paziente. Fa scattare comunque l’allarme, sperando che la guardia all’ingresso non stia dormendo come al solito. Poi corre verso il corridoio.
La donna è già sparita, non ode nemmeno più il rumore dei passi. Si è come volatilizzata. La sirena dell’allarme è muta, il silenzio è palpabile, ma, niente, lei è sparita.
Il lampeggiante rosso spara dardi di luce infuocata nella penombra dei corridoi trasformando l’atmosfera pacata dell’ospedale in qualcosa di inquietante e definitivo.
Pedrazzi corre verso il punto dove immagina sia sparita la donna e ha il fiatone dopo dieci passi. Nonostante sia medico, ama la vita sedentaria, è una buona forchetta e non fa mai esercizio fisico.
Non trova nessuna finestra aperta, nessuna porta accostata. Corre, o meglio, caracolla verso la stanza dove di solito alberga la guardia. Ma la guardia non c’è.
Intanto infermiere confuse hanno incominciato ad invadere i corridoi e ad affacciarsi da alcune stanze. Pedrazzi ne blocca una e le chiede di controllare il paziente della camera diciassette.
La guardia è davanti alla porta di ingresso in maniche di camicia e con le mani appoggiate al cinturone in una posa alla Clint Eastwood. Ha dipinto sul volto un’espressione di gaudio che Pedrazzi non capisce, vista la situazione, e sta scrutando con malcelata indolenza il trampolino di accesso all’ospedale.
“Salve,” esordisce il dottore con un certo affanno.
La guardia si volta lentamente, al rallentatore, l’espressione beota non muta con il variare del posizionamento.
“Bella serata, vero?” risponde la guardia in totale dissociazione mentale.
“Ehm, certo. Giusto per curiosità, ha notato che è scattato l’allarme?”
La guardia ciondola la testa con fare confuso e fissa per un secondo i lampeggianti rossi come una mucca che guarda passare il treno.
“Sì, ma non capisco come mai.”
“Niente di importante, mi creda. Per caso non ha visto passare una ragazza con lunghi capelli biondi?”
“No, no.”
“Grazie di tutto. Buon lavoro.”
“Oh, grazie,” conclude la guardia e torna a scrutare l’orizzonte come la vedetta lombarda. In alcuni atteggiamenti ricorda a Pedrazzi un poliziotto interpretato da Faletti in Drive In: Vito Catozzo.
Nonostante l’incazzatura, il medico riesce a sorridere di quel pensiero. Torna rassegnato verso la camera diciassette. Va bene, la ragazza si è volatilizzata, ma ora è curioso di scoprire che sostanza è stata iniettata nel corpo del paziente.
L’infermiera che aveva precettato poco prima sta controllando i vari tubi che assicurano la vita artificiale del comatoso. Pedrazzi la lascia fare ammirandole il fondoschiena niente male.
L’allarme si spegne da solo, tutti sembrano più rilassati anche se non sono a conoscenza del motivo per cui sia scattato. L’infermiera lascia la stanza con un sorriso di circostanza e il dottore si munisce di siringa sterile.
Avvicinandosi al braccio dove la donna ha iniettato la sostanza misteriosa, nota che il foro di entrata è stato praticato con una certa abilità direttamente in vena e che la ragazza si è pure preoccupata di applicarci un cerotto.
Questo è significativo per Pedrazzi: la donna non aveva nessuna intenzione di uccidere. Non era una fanatica dell’eutanasia, ne tanto meno una folle. Sapeva bene quel che stava facendo, ora il suo compito è solo quello di scoprirne il motivo.
Preleva qualche centilitro di sangue e lo riversa in una provetta sterile. Il paziente non batte ciglio, sembra sempre e comunque in coma.
Controlla i valori sul display ancora una volta. Nulla è cambiato, il paziente è sempre stabile. Osserva un po’ quel viso tumefatto, reso misterioso dalla penombra, poi se ne va, ansioso di scoprire la verità.
Non gli importa poi molto, non gli pesa fare un altro turno, quello notturno, a parte le emergenze, è il più tranquillo, i pazienti dormono e quelli in coma non si lamentano comunque.
Sfoglia un noioso trattato su un nuovo farmaco che sembra fare miracoli per il fegato e rischia di addormentarsi al secondo paragrafo.
Allora si alza, veleggia stancamente verso i distributori automatici trascinando a fatica i piedi sul linoleum color fungo dei corridoi.
Beve un caffè senza nemmeno gustarlo, lo butta giù come acqua fresca, ustionandosi la lingua e parte del tratto esofageo. Poi, non contento, ne prende un altro e lo assorbe allo stesso modo. Sia il liquido che l’ustione hanno l’effetto desiderato: svegliarlo completamente.
Fissa per alcuni secondi il messaggio di benvenuto del distributore automatico, giusto per assicurarsi di essere vivo e sul piano esistenziale giusto, poi, dopo un brontolio di protesta dello stomaco, si appresta a ritornare alla postazione di controllo.
Mosso il primo passo però, nota un movimento alle sue spalle con la coda dell’occhio. Con un sussulto al cuore, si volta, ma non scorge nulla, se non la parete divisoria del corridoio che porta in radiologia.
Sta dandosi dell’idiota per essersi fatto ingannare da un gioco d’ombre, quando sente un rumore provenire da quella direzione.
Altro sussulto al cuore e una breve morsa alla bocca dello stomaco.
Il rumore non si ripete, ma ora il dottor Pedrazzi è più che sveglio, perché nel sangue si è aggiunta anche un po’ di adrenalina. Gli vengono in mente immagini da film dell’orrore, dove il protagonista entra comunque nella casa stregata perché è stato attratto da qualcosa o spinto dalla curiosità.
Ma qui non siamo in un film dell’orrore, giusto? – pensa il dottore per rincuorarsi.
Fissa per diversi secondi il punto in cui crede di aver visto qualcuno muoversi, ma non accade nulla, naturalmente. D’altronde nemmeno nei film più scarsi non funziona così. Allora, suo malgrado, spinto dalla curiosità assassina di quei b-movie, anche il dottor Pedrazzi si muove nella direzione da cui sembra essere scaturito il rumore di poco prima.
Nel corridoio non c’è nessuno. Muove verso sinistra, verso le camere dove sono ricoverati diversi pazienti terminali e in coma irreversibile.
Il silenzio è assoluto, disturbato soltanto dal ronzio delle apparecchiature elettroniche di controllo. Passando davanti alle stanze con larghi finestroni a veduta televisiva sui pazienti distesi nei letti, non nota nulla di strano e l’unico essere deambulante sembra essere lui.
Volta l’angolo del corridoio cercando di non trascinare troppo le suole degli zoccoli sul pavimento di linoleum verde. Alla sua sinistra nota qualcosa, un movimento furtivo.
Il cuore rimbalza a centodue battiti al minuto, la stanza è quella del paziente appena uscito dalla sala operatoria, il morente misterioso.
Nella penombra scorge una figura: è china sul paziente. Pedrazzi si immobilizza, pietrificato dalla paura. La figura si muove, diventa più visibile. È una donna, ha lunghi capelli color grano, è di spalle ed estrae dalla giacca una siringa.
Il dottore vorrebbe intervenire, ma, per un motivo che non riesce a comprendere, è paralizzato dal terrore.
La donna infila la siringa in un punto indistinto del corpo del paziente, questo fa scattare qualcosa nella mente del medico. La paralisi si scioglie come gelato al lampone. Scatta verso la stanza, ma fa troppo rumore. La donna percepisce la sua presenza, si volta e lo vede.
Non si muove, continua strenuamente a iniettare il liquido nel corpo disteso nel letto. Pedrazzi è ormai alla porta. La spalanca e si proietta di slancio contro la bionda.
Lei conclude il suo lavoro, ha il tempo di applicare una benda e poi si scosta nell’esatta frazione di secondo in cui il medico le sta rovinando addosso.
Pedrazzi crolla sul pavimento senza nemmeno sfiorare un pelo della donna. Nella caduta però nota un particolare irrilevante, che indossa un maglione ridicolo, con alci che ricoprono il seno.
La donna gli salta letteralmente sopra e fugge verso la porta.
“Ferma!” le urla dietro il dottore tentando di rialzarsi., ma lei ovviamente non si ferma. Scompare nella penombra del corridoio e i suoi passi ritmati si fanno sempre più lontani.
Il dottore riesce finalmente a rialzarsi, guarda per un secondo il paziente e i suoi valori sul display sopra il letto, ma niente sembra essere cambiato. Qualsiasi cosa abbia iniettato la donna, per il momento non ha alterato l’equilibrio comatoso del paziente. Fa scattare comunque l’allarme, sperando che la guardia all’ingresso non stia dormendo come al solito. Poi corre verso il corridoio.
La donna è già sparita, non ode nemmeno più il rumore dei passi. Si è come volatilizzata. La sirena dell’allarme è muta, il silenzio è palpabile, ma, niente, lei è sparita.
Il lampeggiante rosso spara dardi di luce infuocata nella penombra dei corridoi trasformando l’atmosfera pacata dell’ospedale in qualcosa di inquietante e definitivo.
Pedrazzi corre verso il punto dove immagina sia sparita la donna e ha il fiatone dopo dieci passi. Nonostante sia medico, ama la vita sedentaria, è una buona forchetta e non fa mai esercizio fisico.
Non trova nessuna finestra aperta, nessuna porta accostata. Corre, o meglio, caracolla verso la stanza dove di solito alberga la guardia. Ma la guardia non c’è.
Intanto infermiere confuse hanno incominciato ad invadere i corridoi e ad affacciarsi da alcune stanze. Pedrazzi ne blocca una e le chiede di controllare il paziente della camera diciassette.
La guardia è davanti alla porta di ingresso in maniche di camicia e con le mani appoggiate al cinturone in una posa alla Clint Eastwood. Ha dipinto sul volto un’espressione di gaudio che Pedrazzi non capisce, vista la situazione, e sta scrutando con malcelata indolenza il trampolino di accesso all’ospedale.
“Salve,” esordisce il dottore con un certo affanno.
La guardia si volta lentamente, al rallentatore, l’espressione beota non muta con il variare del posizionamento.
“Bella serata, vero?” risponde la guardia in totale dissociazione mentale.
“Ehm, certo. Giusto per curiosità, ha notato che è scattato l’allarme?”
La guardia ciondola la testa con fare confuso e fissa per un secondo i lampeggianti rossi come una mucca che guarda passare il treno.
“Sì, ma non capisco come mai.”
“Niente di importante, mi creda. Per caso non ha visto passare una ragazza con lunghi capelli biondi?”
“No, no.”
“Grazie di tutto. Buon lavoro.”
“Oh, grazie,” conclude la guardia e torna a scrutare l’orizzonte come la vedetta lombarda. In alcuni atteggiamenti ricorda a Pedrazzi un poliziotto interpretato da Faletti in Drive In: Vito Catozzo.
Nonostante l’incazzatura, il medico riesce a sorridere di quel pensiero. Torna rassegnato verso la camera diciassette. Va bene, la ragazza si è volatilizzata, ma ora è curioso di scoprire che sostanza è stata iniettata nel corpo del paziente.
L’infermiera che aveva precettato poco prima sta controllando i vari tubi che assicurano la vita artificiale del comatoso. Pedrazzi la lascia fare ammirandole il fondoschiena niente male.
L’allarme si spegne da solo, tutti sembrano più rilassati anche se non sono a conoscenza del motivo per cui sia scattato. L’infermiera lascia la stanza con un sorriso di circostanza e il dottore si munisce di siringa sterile.
Avvicinandosi al braccio dove la donna ha iniettato la sostanza misteriosa, nota che il foro di entrata è stato praticato con una certa abilità direttamente in vena e che la ragazza si è pure preoccupata di applicarci un cerotto.
Questo è significativo per Pedrazzi: la donna non aveva nessuna intenzione di uccidere. Non era una fanatica dell’eutanasia, ne tanto meno una folle. Sapeva bene quel che stava facendo, ora il suo compito è solo quello di scoprirne il motivo.
Preleva qualche centilitro di sangue e lo riversa in una provetta sterile. Il paziente non batte ciglio, sembra sempre e comunque in coma.
Controlla i valori sul display ancora una volta. Nulla è cambiato, il paziente è sempre stabile. Osserva un po’ quel viso tumefatto, reso misterioso dalla penombra, poi se ne va, ansioso di scoprire la verità.
[CONTINUA]
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