La prigionia del cielo - Le prime pagine

Prologo
Il vento ululava promesse di burrasca e la pioggia cadeva come se le cateratte del cielo avessero deciso di non chiudersi più. I pini e gli abeti si piegavano pericolosamente verso terra, come per inchinarsi all’indiscusso potere degli elementi. Il diluvio era fitto al punto che era quasi impossibile vedere a più di due o tre metri di distanza, e nemmeno i potenti lampioni della Statale 17 riuscivano a penetrare attraverso quelle sbarre d’acciaio liquido. Tuoni e fulmini cominciarono a rincorrersi sempre più dappresso e le saette, che illuminavano a giorno la piccola cittadina, erano seguite da un cupo fragore che faceva tremare le inferriate delle finestre.
Eppure, in mezzo a tutto quel finimondo, un’auto di piccola cilindrata arrancava lungo la statale. A bordo un giovane dall’aria stanca guidava con cautela, lo sguardo fisso sui piccoli torrenti che serpeggiavano sulla strada. Il tergicristallo danzava rumoroso sul parabrezza spazzando secchiate d’acqua.
La Ford svoltò in una strada secondaria, i piccoli fari rotondi ferirono la tenebra con lame di luce e disegnarono a malapena i contorni nebbiosi della via. Poi l’auto svoltò ancora a sinistra, immettendosi in una strada sterrata trasformata in un sentiero paludoso e informe. L’auto proseguì con decisione, sbandando solo impercettibilmente tra le pozzanghere melmose della via, e superò un grosso arco in legno. Da sopra l’arco pendeva un cartello in ferro mezzo rosicchiato dalla ruggine: “Tenuta Mariani”. 
L’auto raggiunse una maestosa villa coloniale a due piani circondata da querce frondose, che stormivano parlando col vento; dalla tettoia della villa cadevano cascate d’acqua nera che si fondevano con la terra ormai satura.
 Il giovane scese dall’auto e corse verso l’edificio ciabattando nelle pozzanghere scure. Si fermò sotto la tettoia: il volto tirato, lo sguardo nel vuoto. Nel cielo balenò un fulmine che illuminò per un istante il sontuoso giardino dei Mariani.
Un’istantanea del Signore, pensò il ragazzo, e pigiò il campanello che non emise alcun suono.
Un tuono rantolò il suo dolore. Bussò per tre volte. Passarono alcuni istanti e il ragazzo si cinse le spalle rabbrividendo: nonostante fosse solo settembre, il vento di Tramontana era tagliente come una spada. Finalmente qualcuno aprì: una giovane donna apparve sull’uscio di casa.
«Ah, sei qui! Bene!»
Lui non parlò ed entrò. La temperatura, in casa, era assai più mite e il ragazzo porse alla donna la giacca zuppa di pioggia.
«Gli altri sono già qui», gli disse.
Lui già lo sapeva: le loro auto erano parcheggiate nel vialetto d’ingresso. Tutta la villa era illuminata da candele, il che rendeva ancora più suggestivo ed eccitante quello che stavano per compiere. Conosceva bene la tenuta, c’era stato altre volte, così non gli fu difficile trovare la sala da tè. Gli altri lo attendevano seduti al tavolino, nel buio più completo, tranne per una piccola candela al centro del tavolo. La luce debole suggeriva i volti dell’uomo e dell’anziana donna seduti, dando alle loro fattezze contorni sinistri. Lo salutarono con un lieve cenno del capo. Il ragazzo sedette alla sinistra della vecchia e di fronte all’uomo. Furono raggiunti dalla giovane donna poco dopo. La fiammella fremette davanti ai loro occhi, mossa dagli spifferi segreti della casa, proiettando le loro enormi ombre sulle pareti. Fuori il vento gridava il suo terrore mentre il fulmine e il tuono continuavano il loro insoluto duello.
Allacciarono le mani e tra loro cadde il più assoluto silenzio. Dalle labbra socchiuse dei quattro scaturì una litania in latino, un’invocazione musicale, come una filastrocca medievale. Continuarono così per quasi mezz’ora, sempre a occhi chiusi, con la testa china, mani nelle mani e recitando quell’assurda tiritera.
Poi qualcosa accadde.
Il fulmine brillò per due volte, ma non seguì alcun rombo. Il tavolino cominciò a traballare, prima assai lentamente, con piccoli movimenti ritmici come mosso da una scossa tellurica distante, poi cominciò a sbattere con violenza contro il pavimento. La candela cadde di lato e rotolò sul bordo, ma rimase come per miracolo in equilibrio. Poi il tavolino cominciò a roteare vorticosamente su se stesso e s’alzò in aria a mezzo metro d'altezza. I quattro rimasero seduti: le mani sempre allacciate, in bocca sempre la litania rituale, come se nulla fosse accaduto.
Un tuono fragoroso scosse l’atmosfera e la grossa finestra dietro di loro si spalancò di colpo, facendo volare in alto le pesanti tende come vele spiegate dalla tempesta. Il tavolino smise di roteare e ricadde nell’esatto punto in cui era in precedenza. La candela, che era rimasta illesa fino a quel momento, precipitò sul pavimento, e si spense.
I quattro ora erano in piedi, avevano alzato le mani congiunte al cielo e stavano gridando la litania con il viso rivolto verso un punto preciso del soffitto. Un lampo illuminò la stanza e tutt’e quattro all’unisono aprirono gli occhi nel bagliore elettrico della folgore.
In alto, sopra di loro, vicino al lampadario di cristallo, levitava una donna vestita di bianco, le vesti le ondeggiavano attorno come serpi ammaestrate. L’apparizione li guardò a uno a uno con occhi di fuoco e poi rise. Una risata che sembrava giungere da un sepolcro scoperchiato.

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