Ore 1:59
Cabrini Mariozzo raggiunge un corridoio illuminato da una finta lampada ad olio in realtà alimentata da un circuito interno a gas butano che pesca direttamente dalle fogne.
Il corridoio continua direttamente dalla zona dove è caduto e svolta leggermente a sinistra. E’ composto da grossi lastroni levigati che trasudano umidità. A Cabrini sembra di respirare melassa, il tasso di umido pare essere al cento per cento.
La minitelecamera è sempre alle sue spalle e si tiene ad una certa distanza per non farsi scoprire: le reazioni del concorrente potrebbero esserne influenzate.
Si maledice per la sua curiosità, magari se fosse rimasto a letto, tutto questo non gli sarebbe successo. Ma è solo una frazione di secondo, il suo carattere non gli permette mai di rimuginare sul latte versato, pensa solo al prossimo passo, cioè quello di ritornare al livello da cui è precipitato.
Segue il corridoio, illuminato ad intervalli regolari dalle lampade a butano. Procede di buon passo, a testa alta, senza fermarsi ad osservare le pareti, che comunque non hanno nulla di interessante da offrire.
Dopo una cinquantina di metri circa ode davanti a se un rumore. E’ qualcosa di ovattato, non ben definito, ma è sicuramente un rumore. Come se qualcosa fosse caduto su un batuffolo di lana.
Mariozzo si blocca per alcuni secondi, tende il senso dell’udito verso l’esterno, se avesse le antenne attaccate ai padiglioni auricolari ora le sparerebbe fuori a sondare l’aria.
Il rumore non si ripete. Attende ancora qualche minuto completamente immobile nella penombra del corridoio, poi ricomincia ad avanzare.
Il corridoio svolta di nuovo a sinistra, stavolta con una curva più secca quasi a novanta gradi. Appena girato l’angolo ecco che il rumore si ripete. Stavolta più forte. Qualcosa di metallico che batte contro qualcos’altro. Poi una voce, flebile, pare quasi un’eco.
Cabrini si irrigidisce, il tono ha un qualcosa di spettrale, qualcosa che non appartiene al mondo che lui conosce. La voce si ripete, stavolta più vicino e allo stesso tempo più lontana, Mariozzo non sa definire esattamente quel che sente. E’ come se il rumore rimbalzasse sulle pareti e poi tornasse alla fonte.
Più avanti nota una porta. L’ha notata solo il quel momento perché la penombra inganna l’occhio e poi era un poco squagiato, come dice lui per definire uno spavento. Anche lo scroto gli si è un po’ ritirato per la paura.
Ma lui è un uomo, o no? E che diamine! Su un po’ di quella roba lì, avanti!
Il rumore comunque sembra proprio irradiarsi dalla porta in tutte le direzioni possibili di questo emisfero. Cabrini ricomincia ad avanzare, lentamente, con calma, senza strafare. Non si ode più nulla provenire dalla porta, ma ora l’ex calciatore è pervaso in tutto il suo essere muscoloso anche dalla curiosità.
E’ vicino, si blocca, cerca di sbirciare la costituzione subatomica del materiale che compone la porta allungando il collo, ma non scorge nulla di significativo.
Allora, con gesto eroico, muove la mano sinistra verso la maniglia in bronzo. La abbassa e la porta si apre lentamente, ovviamente con scricchiolii sinistri.
Quello che scorge aldilà della soglia gli fa ghiacciare per un attimo il sangue nelle vene. Un fantasma fluttuante e fluorescente, solo con il torso e le braccia. E’ davanti a quello che sembra un fornello e sta mescolando qualcosa in un pentolino, naturalmente tutti gli oggetti sono fantasma, di una consistenza impalpabile. Il rumore metallico che Cabrini sentiva nel corridoio è il ritmico roteare di un cucchiaio dentro il pentolino fantasma.
L’ex calciatore è impietrito sulla soglia della stanza, quella che sembra essere una cucina, ma piena di cianfrusaglie di vario tipo, tra cui Cabrini intravede un cupido fucsia in piedi su una nuvola color oro.
Lo spettro s’accorge della presenza di Mariozzo, volta la testa lentamente, attraverso il suo corpo si intravedono altri oggetti e la parete della stanza. Ha una strana acconciatura anni ’60 e il vestito che si intravede sul torso sembra uno di quelli da palcoscenico di Elvis.
Il corpo di Mariozzo è percorso da brividi di paura, tutto il suo essere ne è pervaso, non ha mai provato un’emozione così violenta e scioccante.
Lo spettro Elvis lo fissa con occhi vuoti, azzurrini come il resto del corpo.
“E tu chi saresti? Uno di quelli che mi hanno fatto sbaraccare da sopra, immagino.”
La voce è sepolcrale, un’eco che sembra giungere direttamente da una tomba. Cabrini non parla, ha la lingua immobile, ghiacciata come il resto del corpo.
“Paura, eh?” farfuglia lo spettro imitando la parodia di Lucarelli. Questa frase che richiama qualcosa di reale e, soprattutto, televisivo, sembra sciogliere la frigida barriera di Mariozzo.
“Ma tu chi sei?” domanda con un tremolio nella voce.
“Un fantasma, naturalmente. Sono uno dei tanti morti di morte violenta in questo castello e come tale devo rimanere legato al luogo dove sono deceduto e allora vago e faccio cagare addosso i visitatori che entrano a pagamento. Ho un contratto con gli attuali proprietari, ma con questa storia del reality show mi hanno chiesto di andare in vacanza per un po’. Tzé, in vacanza, come se potessi, chessò, andarmene al mare o in settimana bianca. Solo legato a queste pietre umide del cazzo e non posso muovermi da qui.”
Cabrini si guarda attorno disorientato, la stanza è veramente colma di roba inutile, ma lo spirito, muovendosi, ci passa attraverso. Vicino ai suoi piedi nota un antico astrolabio.
“Non se ne può andare da qui?”
“Dammi pure del tu, il mio nome è Astolfo Mestolino, ero un cavaliere errante e ho avuto la malaugurata idea di innamorarmi della figlia del padrone del castello, stiamo parlando del 1129. Solo che lei era già promessa sposa ad un vecchio bacucco del luogo. Comunque io non mi sono perso d’animo, ho cercato di scavalcare il muro di cinta, ce l’avevo quasi fatta, ho raggiunto il torrione, ma poi sono inciampato e sono caduto dalla parte sbagliata, cioè dalla parte del castello. Cadendo però non sono morto, mi sono spaccato tutte le ossa, le guardie del castello mi hanno raggiunto e ucciso come una scatoletta di manzo in scatola. Da quel giorno sono condannato a starmene in questo ciocco di pietra come spirito vagante. Dimmi te un po’ che sfiga.”
Cabrini non sa che dire, non ha mai parlato con uno spettro e, in fin della fiera, non ha mai parlato molto nemmeno con i vivi.
Dice la prima cosa che gli viene in mente: “Non hai possibilità di andartene in nessun modo?”
Astolfo Mestolino sbiadisce un attimo, come se pensare ne consumasse l’essenza.
“Un modo ci sarebbe, ma non credo ti piacerà.”
A Cabrini tutta quella situazione non piace, anche se è incuriosito da questa nuova sfera dell’esistenza. Il fantasma sembra sparire ancora di più, poi si fa più vivido, al punto che Mariozzo riesce persino a contargli i peli del naso.
“Per sciogliere un vincolo contrattuale creatosi con la violenza esistono due modi: un atto d’amore o una nuova violenza, questo però nel punto esatto dove sono spirato. Nel senso, o uccidi gli attuali proprietari del castello in quel punto versando il loro sangue, oppure richiami dall’oltretomba Giardina Vaccamelata, la mia amata, e le fai piangere lacrime d’amore sulla mia tomba.”
Astolfo attraversa un globo argenteo da discoteca e si avvicina a Mariozzo.
“Allora, cosa scegli?”
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