continua da C come Clessidra
Quassù l’aria è veramente frizzante, si sentono gli aromi della città: gas di scarico mischiato a cipolla fritta, fogna madida e in sottofondo qualcosa di misterioso che sembra quasi gelsomino. Sotto di me 40 piani di cemento armato e vetro, un enorme fallo eretto nel centro della metropoli. Il vento ulula intorno al palazzo, sono appoggiato sul davanzale della finestra del mio ufficio e, ovviamente, non mi ricordo come ci sono finito.
Il vuoto è invitante, sembra quasi chiamare verso il suo abbraccio sicuro. Un volo scoordinato che porrebbe fine a tutto. Ma il mal di stomaco mi tiene ancorato alla realtà, non so cosa diavolo ho bevuto ma mi manda delle fitte intermittenti. Sopportabili ma fastidiose.
Il vento sussurra parole estetiche, tipo: vattelapesca, marronglace, poi mi domanda se ho innaffiato i gerani ierisera.
Devo aver bevuto. E’ fuori discussione. In effetti barcollo, sia per l’azione del vento che per il giramento di testa dovuto all’alcol.
Qual è l’ultimo ricordo prima di questa situazione? Perché sono in bilico su questo davanzale, e, soprattutto, perché ci sono salito.
Qualcuno bussa sul vetro dietro di me. Dallo spavento quasi cado di sotto e la cosa mi fa ridere. Riesco a voltarmi: è Corianda, la mia segretaria. Ha un sorriso cordialmente finto stampato sulla faccia, apre la finestra e annuncia, con tono impostato: “Mi dispiace disturbarla, signore, ma dovrebbe ancora firmarmi un paio di carte.”
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